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Il libro è un lucido delirio, una confessione-interlocuzione dell'io narrante di fronte ai cadaveri dei propri genitori. Eutanasia da parte del padre sulla madre gravemente malata e suicidio di questo con una dose letale di ipnotico miscelato ad alcol. Un discorso a distanza, una ricognizione feroce e senza via d'uscita sul dolore e nel dolore: l'ineludibile gorgo di un'iniziazione alla sofferenza e alla negazione d'amore sulla pelle del protagonista senza nome. Figlio legittimo nato per caso e secondo fratello di un bambino tedesco adottato durante la guerra dai genitori che lo hanno trovato all'uscita di un rifugio dopo il bombardamento su Roma a San Lorenzo e su cui hanno riversato un morboso amore. Rendiconto estremo dalla seconda guerra al 1981, privo di pudore, sulla vita, sulla morte e sulle efferatezze di un'ipocrita pace borghese. Al di là delle apparenze sempre al limite della follia, traspare che l'ambiente familiare altro non è che una tana di serpi fatta di abusi e perversioni. Una discesa agli inferi: Ruggero, Emma e Aurelio come una Trinità al contrario. Al termine della discesa tutto sembra per un attimo acquietarsi ricomponendosi la fine con l'inizio, "la lontana fotografia", quasi una luce catartica ma subito rappresa da rimorsi e sensi di colpa di espiazioni fallite omai cercate. Vane. Luce perciò fine a se stessa, non consolatoria, giammai assolutoria.